Strada lastricata Medma
Strada lastricata Medma

Storia

Le origini di Rosarno sono da ricercare nell'antica colonia di Medma, fondata dai locresi alla fine del VI secolo a.C.. Valicando i passi della Limina, di Croce Ferrata, di Ropola e del Mercante (a 952 m s.l.m.) e scendendo lungo i pendii, i locresi si diressero verso una vasta e fertile pianura attraversata da rigogliosi corsi d'acqua, distante meno di una giornata di cammino da Lokroi Epizephyroi. Giunti ad una collina al centro della pianura, vi trovarono delle popolazioni indigene di stirpe indoeuropea, e da queste trassero e diedero alla città rifondata il nome di Medma, termine che nella lingua delle popolazioni autoctone significa "città di confine". L'agglomerato urbano dell'antica cittadina, ampio da ospitare una popolazione superiore ai quattromila abitanti, si estendeva sull'ameno terrazzo di Pian delle Vigne. Nel perimetro compreso tra il Bellavista del Rione Ospizio, l'attuale cimitero, contrada Pomaro e la zona "Ospedale" sorgevano case, laboratori artigianali, negozi e templi.                      

Più tardi i coloni di Lokroi Epizephyrioi si accamparono su un altopiano più a nord di Medma, dove fondando Hipponion (l'odierna Vibo Valentia), città marinara e con un ferace retropiano agricolo, ampliando così i propri confini territoriali e imponendo una maggiore azione politica e commerciale sul versante tirrenico. Insieme ad Hipponion, Medma, ingaggiò uno scontro contro la stessa Locri, ottenendo l'indipendenza. Nel 389 a.C. venne conquistata da Dionigi il Vecchio di Siracusa ed i suoi abitanti furono deportati a Zancle (odierna Messina), ma si risollevò ben presto dalla sconfitta, e nel IV sec. a.C. coniò moneta con l'incisione "Mesma".

L'abbandono definitivo della città si può collocare nel corso della seconda guerra punica.

 Un’enorme mole di materiale archeologico di notevolissimo pregio artistico è venuto alla luce dal sottosuolo rosarnese nel corso degli scavi avviati nei primi decenni del Novecento da Paolo Orsi, che fu il primo a “certificare” l’esistenza dell’antica città magnogreca nei luoghi dove sorge l’attuale Rosarno, e proseguiti da Paolo Enrico Arias, Salvatore Settis, e, a partire dagli anni ’80, da Claudio Sabbione, Maurizio Paoletti, Maria Teresa Iannelli: questi ultimi impegnati soprattutto a ricostruirne le coordinate urbanistiche. Gli scavi più fortunati furono quelli compiuti da Orsi nel 1912-13: su Pian delle Vigne, in contrada Calderazzo, in una grande fossa sacra lunga ben 33 metri, larga 3,5 m. e profonda tra i 2 e i 3 metri, collocata presumibilmente nelle vicinanze di un tempio dedicato a Persefone ed Afrodite, rinvenne migliaia di oggetti in terracotta e metallici – offerte dei medmei alle loro dee - databili tra VI e V sec. a. C., tra cui divinità femminili in trono, figure di donna in abito ionico e dorico, criofori, eroti, sileni e – scoperta di enorme pregio artistico – grandi busti femminili dai grandi occhi a mandorla e dall’ ineffabile piega del sorriso misterioso . Manufatti, espressione di un’arte così raffinata da far supporre che dietro lo stile inconfondibile dei maestri figulini medmei, pur originale perché incurante di modelli e canoni, sia da ipotizzare la presenza di una scuola facente capo ai grandi maestri dell’epoca, Calamis, Pitagora da Reggio e Klearcos.

 In un’altra favissa rinvenuta in contrada S. Anna, a poche centinaia di metri dalla precedente, l’archeologo trentino portò alla luce 50 figurine complete e 101 teste di cavallucci fittili ed altro materiale di notevole valore storico-artistico, ex voto offerti alla divinità del tempio Athena Ippia. Altra sua importante scoperta fu quella relativa alla localizzazione della necropoli di Medma, in contrada Carozzo-Nolio, dove riesumò ben 86 sepolcri, con i relativi corredi funebri, tra cui la famosa “Arula di Tiro”, un altarino in terracotta in cui è effigiata una scena mitologica desunta da una tragedia di Sofocle andata perduta. La rappresentazione di scene ricavate dalla tragedia ateniese caratterizza altre cinque arule, e ciò, oltre a mettere in risalto gli ottimi rapporti intercorrenti tra la polis tirrenica e la capitale dell’Attica, costituisce sul piano artistico un fatto prodigioso e senza confronti in tutta la Magna Grecia.                                                           

 

Numeroso ed abbondante il materiale rinvenuto nel corso dei decenni successivi, tra cui si segnalano uno specchio in bronzo di IV sec. a. C., caratterizzato dal manico riproducente un sileno villoso che accarezza Dioniso fanciullo (1949), un cavalluccio in bronzo scoperto da Salvatore Settis in contrada Calderazzo (scavi 1964-66), una bellissima anfora attica di VI sec. a. C., denominata “Gangemi”, sui cui lati sono raffigurati una processione di Dioniso con satiri e menadi e un combattimento tra cinque eroi, tra cui Aiace; un gruppo di statuette fittili di recumbenti, provenienti dall’area sacra del Mattatoio (V-IV sec. a. C.) e riferibili ai culti dionisiaci. Infine, degni di menzione: a) la scoperta di una strada dall’aspetto monumentale, di V-IV sec. a. C., al centro del reticolato urbano di Medma, la cui tecnica di costruzione costituisce un unicum, non trovando riscontro finora in tecniche stradali similari di altre polis italiote e siceliote; b) il rinvenimento di altre decine di tombe con corredo funebre ai piedi della collinetta di Nolio-Carozzo, nel corso dei lavori per la costruzione della bretella di collegamento col Porto.                                                                     

Dell’antico tracciato urbano – in parte preservato dal moderno fenomeno di urbanizzazione selvaggia grazie all’istituzione del Parco Archeologico -, oltre le favisse rinvenute da Paolo Orsi, sono noti i resti di alcuni edifici privati, i muri del temenos di due edifici sacri, due segmenti di strade lastricate, decine di pozzi e fornaci.                                  

I reperti archeologici di Medma – restaurati solo in minima parte rispetto alla grandissima mole rinvenuta - fanno bella mostra di sé in numerosi musei, tra cui, principalmente, quello di Reggio Calabria, e poi Siracusa, Vibo Valentia, Rovereto, Napoli, Taranto. Interessanti testimonianze si trovano nei Musei di New York, Londra, Parigi, Basilea, Ginevra, Bonn, Sidney. Di notevole interesse si è rivelata l’apertura, in apposite sale dell’Auditorium Comunale, di una Mostra Didattica Permanente, primo nucleo dell’istituendo Museo Civico, dove a cura della Soprintendenza ai Beni Archeologici sono stati esposti materiali provenienti soprattutto dagli scavi orsiani, tra cui alcuni esemplari di cavallucci della stipe votiva di S. Anna, di pesetti da telaio, alcune teste e busti femminili di notevoli dimensioni, alcuni criofori raffiguranti il dio Hermes che porta l’ariete sulle spalle, statuette simboleggianti Zeus ed Heracle, nonché reperti appartenenti ai corredi funebri della necropoli, tra cui una lekane ed una lekythos di notevole valore.                           

Per consentire una maggiore valorizzazione del grande patrimonio archeologico rosarnese, all’interno del Parco Archeologico sarà ospitata una Scuola di Archeologia, nata per volontà del Comune, della Soprintendenza e dell’Università di Reggio Calabria, che avrà tra l’altro il compito di curare una sistematica campagna di scavi in collaborazione con altre università italiane. Nei 13 ettari del Parco Archeologico, secondo il progetto redatto congiuntamente da Comune di Rosarno, Soprintendenza ai Beni archeologici della Calabria, Amministrazione Provinciale e Università Mediterranea di Reggio Calabria, saranno creati appositi spazi per le attività teatrali e ludiche. Scomparsa Medma, la prima notizia riguardante Rosarno – situata in epoca medievale lungo la via Popolia - è del 1037, il cui nome, di origine bizantina (dal patronimico Rousare, sta a significare “il paese dei membri della famiglia Rùsari” ) si incontra appunto in un codice napoletano di quell’anno. Ebbe una certa importanza come “castrum” a protezione della Piana e stazione obbligata verso la Sicilia, quando Ruggero il Normanno pose la capitale del Regno nella vicina Mileto. Prima del X sec. un complesso monastico venne edificato dai Monaci Basiliani sulla collinetta denominata Badia, intitolato a Santa Maria del Rovito, che riuscì a sopravvivere per ben 800 anni fino a quando non venne soppresso nel 1809 per effetto del decreto di Gioacchino Murat. Unica testimonianza dell’antichissimo convento è una preziosissima croce bizantina in argento del sec. XII, conservata nel Monastero basiliano di Grottaferrata, su cui in greco è impressa l’iscrizione: “A Te tutta pura Madre del Verbo offerse Costantino nella liberazione dei morbi”.

Nel 1305 il feudo di Rosarno risulta intestato nei Registri Angioini a Giovanni Ruffo di Catanzaro. Per effetto del matrimonio tra Enrichetta Ruffo ed Antonio Centelles, il feudo venne trasferito nel 1439 a quest’ultimo, per ritornare alla Corona nel 1463, dopo la vittoria di Ferdinando d’Aragona sul ribelle feudatario. Assegnata dapprima alla famiglia d’Alagno, e poi ad Agnello Arcamone, la terra di Rosarno pervenne a Ludovico il Moro che nel 1499 la cedette ad Isabella d’Aragona, duchessa di Milano. Nel 1507, il Ducato di Monteleone, la Contea di Borrello e la Signoria di Rosarno, permutate da Isabella con il Ducato di Bari, furono concessi da re Ferdinando il Cattolico ad Ettore Pignatelli (ma secondo qualche storico da questi acquistati in modo fraudolento ), la cui famiglia ne mantenne il possesso fino al 1806, anno dell’eversione della feudalità.

Nel febbraio del 1735 il giovane re Carlo III di Borbone venne per 15 giorni ospitato dai Pignatelli nel loro palazzo di Rosarno. Durante questo soggiorno il Re trascorse gran parte del tempo andando a caccia nel Bosco, rinomato per l’abbondanza di selvaggina e per le sue erbe medicinali. Fu qui, racconta Pietro Colletta, che il Sovrano, costretto un giorno dalla pioggia a riparare in un povero tugurio, “trovando giovine donna or ora sgravata, volle farsi suo padrino; donò di cento doppie d’oro la madre; assegnò al fanciullo ducati venticinque al mese finché in età di sette anni venisse alla reggia”.                                  Rosarno diede i natali nel 1745 al Cardinale Francesco Maria Pignatelli, famoso per avere ricevuto la rinuncia al Pontificato da parte di Papa Pio VII (quando con lui si recò a Parigi), preoccupato che Napoleone avrebbe potuto con la forza e la violenza strappare concessioni alienanti i diritti della Chiesa.                                                                  

Rosarno fu completamente distrutta dal terremoto del 5 febbraio 1783, che causò oltre 60.000 vittime nell’intera Calabria. Lo sconvolgimento tellurico – che produsse alla periferia del paese una fenditura lunga circa 1 km, larga 100 metri e profonda 30 - non solo comportò la perdita di 203 cittadini, ma ebbe tristissime conseguenze sul territorio, a causa dell’abbassamento della vallata del Mesima. La città “fu da cima a fondo distrutta a segno, che una confusa e indistinta ruina ora ricopre quel suolo, ove furono i suoi edifici” . I gravi fenomeni di disordine idraulico che ne seguirono, portarono all’impianto della malaria e alla conseguente decimazione della popolazione, ridottasi sul principio del XIX secolo ad appena 700 anime!                                                                                                   

Nel 1799, il Generale Championnet, per l’ordinamento amministrativo che dava alla regione, riconosceva autonomo Rosarno, e l’includeva nel Cantone di Seminara. Per decreto 4 maggio 1811, istitutivo dei Comuni e dei Circondari, veniva considerato tra i primi e posto nella giurisdizione di Nicotera. Per la legge 1 maggio 1816, istitutiva della nuova provincia di Reggio, veniva in questa trasferito ed assegnato al Circondario di Laureana.              

Posta a presidio della Valle del Mesima e della Piana, preda degli eserciti diretti alla conquista della Sicilia, Rosarno fu al centro degli avvenimenti che caratterizzarono la storia della nostra regione durante l’Ottocento. Nel corso della rivolta sanfedista del 1799, occupata dalle truppe francesi, fu liberata dal Cardinale Ruffo, che vi pose il quartier generale per alcuni giorni, in attesa di proseguire la marcia verso nord alla conquista di Napoli. Il Ruffo approfittò della sosta rosarnese per scrivere alcune lettere al ministro Acton e a re Ferdinando, riparato a Palermo sotto la protezione degli inglesi. Nei boschi di Rosarno trovarono rifugio per diversi anni alcune bande di briganti, fedeli alla Corona, tra cui il terribile Francesco Moscato, detto “u Bizzarru”, di Vazzano, un paesino delle Serre. Venne catturato e ucciso a seguito della campagna di feroce repressione condotta per i francesi dal generale Manhes.

 

Nel 1833, appena salito al trono, il re Ferdinando II, in visita nelle Calabrie, viene a Rosarno, ospite del generale Vito Nunziante nella sua bella dimora di San Ferdinando. Fa regalo alla chiesa di una bellissima campana di bronzo. Vi fa ritorno nel 1852, accolto trionfalmente dai rosarnesi con una solenne celebrazione nel Duomo cittadino. Durante la spedizione per la conquista del Regno di Napoli, nella nostra città fece sosta Giuseppe Garibaldi con il suo esercito. Il 26 agosto 1860 fece un bivacco ai piedi dell’abitato, presso la Fontana Nuova, ove si rifocillò con i suoi uomini. Il Comune provvide a rifornire la truppa di pane, facendo venire da Nicotera sufficienti provviste. Del passaggio dei garibaldini da Rosarno ne dà notizia nelle sue “Impressioni di viaggio” Maxime Du Camp, lo scrittore-soldato francese al seguito dei Mille.        

Dall’infelice condizione in cui era caduta dopo il terremoto del 1783, seguito dall’impianto della malaria, Rosarno venne progressivamente affrancata, grazie alla bonifica avviata dal Marchese Vito Nunziante, fedelissimo generale di re Ferdinando di Borbone, cui venne affidato il compito di procedere al risanamento del territorio, dietro lautissimo compenso: il possesso degli 854 ettari bonificati! Migliaia furono i lavoratori impiegati nella gigantesca opera di redenzione agraria, provenienti dai paesini del Monte Poro, e dal Cosentino, tutti raggruppati in un villaggio in riva al mare, che prese il nome nel 1831 di SAN FERDINANDO, frazione di Rosarno fino al 1978, quando fu eretto a Comune autonomo.

Completata nel corso dei decenni a venire con interventi mirati a contenere la furia delle acque che devastanti dall’Aspromonte e dalle Serre si riversavano verso il mare, la bonifica della Piana di Rosarno produsse gli effetti sperati, trasformando un territorio acquitrinoso e insalubre in una plaga ubertosa e lussureggiante, a tal punto da rendere possibile l’impianto di colture agricole pregiate, quali quelle agrumicole ed olivicole. Ottimi risultati sta conseguendo la coltivazione del kiwi, che nella Piana di Rosarno ha trovato l’habitat ideale per la produzione di frutti insuperabili per proprietà organolettiche. Grazie alle accresciute potenzialità economiche, nel corso degli anni Rosarno vide incrementare progressivamente la popolazione, divenendo punto di riferimento per migliaia di lavoratori provenienti dai paesi vicini e dalla zona jonica, e di commercianti di prevalente origine napoletana (Gargano, Criscuolo) che – grazie all’apertura della linea ferroviaria Eboli-Reggio Calabria - aprirono empori e magazzini sulla via Nazionale, in prossimità della stazione ferroviaria.

All’inizio del Novecento la ferrovia registrava un movimento merci tale da consentire un reddito annuo di mezzo milione di lire. I traffici commerciali di ben 7 mandamenti (Polistena, Cinquefrondi, Laureana, Mileto, Nicotera, Soriano e Arena) facevano capo alla nostra cittadina. Gli operatori dei paesi vicini potevano trovarvi “quei generi che prima forniva solo Gioia Tauro”, un centro a vocazione schiettamente commerciale, a cui Rosarno in quegli anni aveva strappato il primato. Un ulteriore impulso alla trasformazione agraria venne dato dall’ occupazione delle terre del Bosco (come già detto, rifugio privilegiato delle bande di briganti fedeli al deposto re borbonico durante il decennio francese), avvenuta nel 1945. Ben 750 ettari incolti vennero incamerati in modo pacifico da altrettante famiglie di contadini, che impiantandovi agrumeti ed oliveti riuscirono a venir fuori dalla condizione di ancestrale miseria ed assicurarsi un avvenire più dignitoso.

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