La Storia

 

sui tesori di Pistoia

Battistero

 

L’edificio, ottagonale, fu costruito tra gli inizi del ‘300 e il 1364 nello stesso luogo dove sorgeva, almeno fin dal secolo XII, un battistero dedicato, come l’attuale, a S. Giovanni Battista. Nel 1303 il Comune di Pistoia deliberò di costruire l’antica struttura, ormai in cattive condizioni statiche. I lavori erano a buon punto nel 1320, tanto che si cominciarono ad acquistare marmi da Siena per il rivestimento delle pareti e dei portali. La demolizione del precedente battistero non comportò tuttavia la distruzione dell’ampia vasca battesimale a immersione, eseguito da Lanfranco da Como nel 1226, che rimase il fulcro del nuovo edificio. Per un decennio circa, a partire dal 1337, i lavori proseguirono sotto la direzione di Cellino di Nese, architetto e scultore poi operoso anche al Camposanto di Pisa, il quale si occupò del completamento delle muraglie perimetrali e del loro rivestimento marmoreo a sottili listature orizzontali in serpentino o “verde di Prato”, con criteri decorativi assai vicini a quelli impiegati dalle maestranze senesi per il Battistero di quella città.

Si deve invece ad una ripresa dell’attività costruttiva dopo la “peste nera”, che devastò l’Italia fra il 1348 e il 1349, il completamento della parte alta e la chiusura dell’edificio con un’ardita cupola a spicchi in mattoni, coperta all’esterno da un tetto a falde trapezoidali sormontato da un elegante lanterna. Questa fase, più vicina allo stile pisano coevo, è caratterizzata da un ingentilimento degli elementi decorativi, mediante la ghirlanda dei pinnacoli intorno al tetto e il loggiato cieco ad arcatelle ogivali continue, che corre nella parte alta di ciascuna faccia.

Il Battistero, il cui portale principale, di fronte alla cattedrale, è ornate delle statue della Madonna col Bambino, di S. Giovanni Battista e di altro santo, comunemente ritenuto S. Pietro, aveva originariamente una porta lignea a due battenti, finemente intarsiata da artisti senesi. Questa fu poi sostituita da altra, eseguita nel 1523 dal pesciatino Pier Francesco di Ventura in stile manieristico.

Un tempo si trovava all’interno, entro una nicchia ricavata nel muro, una statuetta lignea raffigurante un “Angelo che presenta ai fedeli la testa del Battista”, finissima opera gotica di artista ignoto, attualmente nel Museo capitolare allestito nell’antico palazzo dei vescovi (piazza del Duomo).

Il cofano nuziale

 

L’oggetto, a pianta ottagonale con coperchio sormontato da una palla rotonda, fissata su di una presa verticale a cuspide, al colmo del medesimo, è in avorio e corno preziosamente intarsiato. Di ampie dimensioni, aveva uno scopo profano: serviva infatti a contenere il ricco corredo in gioielli che una fanciulla patrizia portava con sé al momento delle nozze.

Il cofano nuziale, databile fra gli ultimi decenni del ‘300 e i decenni iniziali del ‘400, è fra i più antichi e grandi esistenti nel suo genere; per finezza di esecuzione e chiara proporzionalità delle parti è da attribuire a Baldassarre degli Embriachi, uno dei più noti artefici di questa famiglia specializzatasi, a Venezia, nella produzione di oggetti consimili, in avorio e osso: altaroli, trittichetti, cofanetti e scatole, per la maggior parte richiesti dalla borghesia ricca e dal patriziato italiano. Particolari affinità questo cofano rivela con un piccolo trittico nel Museo Civico di Torino, per la qualità delle decorazioni e per la conformazione di figure e scene.

Qui però il soggetto raffigurato nei riquadri del cofano è profano, trattandosi delle mitiche storie di Giasone. Il racconto si svolge indulgendo a divagazioni fantastiche, calate in un clima cavalleresco e cortese, quale era anche proprio, in quel periodo, delle letture preferite da quel ceto sociale di committenti, che “per diletto” ricercava volgarizzamenti di racconti antichi e di miti greci.

Il Palazzo del Comune

 

Fu iniziato nell’ultimo decennio del secolo XIII, quando prevaleva il governo popolare favorevole a Firenze: la tradizione lo attribuisce alla volontà del podestà fiorentino Giano della Bella, che ricopriva tale carico nel primo semestre del 1294. I lavori di costruzione furono assai lunghi, anche perché per poter procedere fu necessario l’abbattimento di diversi edifici privasti. Non è stata ancora studiata a fondo la prima fase costruttiva; tuttavia è possibile arguire che inizialmente il “palazzo degli Anziani del Popolo” fosse più piccolo e meno profondo dell’attuale, con tre ampie arcate su pilastri che immettevano in una corte interna quadrangolare, da cui attraverso una scalinata (poi modificata) si accedeva al piano superiore, dov’erano le sale del Consiglio e gli altri uffici. Dopo un periodo di stasi, dovuto ai torbidi politici e alle guerre, nel 1339 i lavori erano ripresi: ma solo verso la metà del ‘300 il palazzo assunse la sua forma definitiva, dopo essere stato ampliato dalla parte nord. Sembra che il progetto si debba all’architetto e orafo senese Michele di ser Memmo, che nel 1349 si definiva “capomastro” del Palazzo allora in costruzione. Fu allora che l’edificio assunse un più elegante aspetto, distaccandosi dalle originarie severe forme di tipo duecentesco fiorentino con influssi di tipo “lombardo” o settentrionale. All’interno si trova, presso all’ingresso, l’ampio scalone trecentesco in pietra, con cui si accede al piano superiore, e la severa corte quadrangolare con volte a crociera tutto intorno, sorrette da pilasrtri poligonali, dove al centro, a cielo aperto, è stata recentemente collocata la scultura de “Il cavaliere” di Marino Marini. Al primo piano, oltre agli uffici comunali, è l’ampia sala maggiore del Consiglio, di belle proporzioni, con soffitto ligneo e diverse opere d’arte alle pareti; la Cappella di S. Agata, un tempo adibita alle funzioni sacre per i membri del governo comunale, eretta verso il 1341 e poi modificata ai primi del ‘700; la cosiddetta “Sala Ghibellina”, adorna di alcuni affreschi (sec. XIII-XV); le sale adibite a Museo civico, le cui raccolte sono esposte anche al secondo piano, dov’è un altro ampio e luminoso salone. Sulla facciata del palazzo, dove spiccano tre grandi stemmi medicei, è affissa una curiosa scultura duecentesca, a sinistra del finestrone centrale al primo piano: una testa di negro mozzata, attaccata ad un’asta di ferro che termina con una mano stretta a tenere una mazza da guerra. Attribuita dalla tradizione al traditore di Pistoia Filippo Tedici, che qui sarebbe stato ritratto in posizione infamante, oppure all’eroe pistoiese Grandone dei Ghisilieri, pare più probabilmente da identificare con la testa di “Musetto”, musulmano re di Maiorca, ucciso dai Cristiani durante la spedizione delle Baleari, cui aveva partecipato anche un contingente di Pistoiesi che ne menarono grande vanto e gloria a tutta la città.

Il Palazzo Vescovile

 

Di una sede vescovile i documenti hanno lasciato ricordo nel 1091, mentre in una pergamena del 1112 è fatta esplicita menzione di un “palazzo del Vescovo” (“palatium episcopi”), che allora era una costruzione già a due piani, con possenti mura perimetrali in pietra e pillole di fiume e con carattere di vera e propria fortificazione. Sorgeva accanto alla cattedrale pistoiese, disponendosi ad angolo retto rispetto alla facciata della chiesa. Comprendeva anche una corte recinta a cielo aperto, con alto torrione a sud, ancora esistente. Durante il secolo XII il palazzo fu ampliato e accresciuto in altezza, con paramento in mattoni e trifore di tipo romantico-lombardo in facciata (verso il 1182-83). Sul finire del secolo fu dotato, dal lato prospiciente sulla piazza, di uno scalone esterno la cui conformazione si imponeva per il contrasto netto col paramento murario in mattoni, dato che era rivestito di liste di marmo bianco e di serpentino verde scuro. Nella stessa epoca fu costruita la cappella vescovile dedicata a S. Niccolò, al primo piano, esattamente sopra la famosa Sagrestia di S. Jacopo, eretta fra il 1160 e il 1170 e ricordata da Dante (“Inferno”, canto XXIV) per la sua ricchezza di oreficerie sacre e di splendidi paramenti. La cappella vescovile veniva così a collegare in un’unica struttura il palazzo episcopale con i vani annessi alla Cappella di S. Jacopo, patrono della città di Pistoia e centro di culto legato al pellegrinaggio compostellano. L’oratorio del vescovo è ad aula unica monoabsidata, con abside pensile di tipo lombardo all’esterno e con pareti interne affrescate con vari episodi di martirio di apostoli e santi.

Durante il ‘300 il palazzo fu di nuovo ampliato e la facciata acquistò al primo piano un loggiato con archi ogivali su pilastri in mattoni, mentre al secondo piano si disponeva ordinatamente una serie di eleganti bifore.. Al primo piano si apriva, all’interno, la grande sala affrescata che serviva per le assemblee sinodali del clero. Altre trasformazioni interne furono effettuate fra ‘400 e ‘700, fino a che, nel primo semestre del 1786, il vescovo di Pistoia Scipione dè Ricci, vendette il palazzo a privati, nella prospettiva di costruirsi altrove una sede più ampia e consona al gusto dell’epoca.

Seguì un lungo periodo di oscurità e decadenza per la struttura monumentale, suddivisa in appartamenti ai piani superiori senza alcun rispetto per l’antica conformazione. Rimaneva, come unico vestigio della tradizione, la sola, popolare e antica “Farmacia dè Ferri” al piano terreno, così chiamata per la recinzione in ferro intorna a quella parte del palazzo che delimitava la pertinenza del terreno al medesimo, rispetto al suolo pubblico. Acquistato infine dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, l’edificio è stato restaurato fra il 1970 e il 1980, riacquistando l’antico aspetto trecentesco in facciata.

Il Pulpito di Giovanni Pisano

 

Firmato e datato al 1301, il pulpito è l’opera più significativa e coerente del grande scultore pisano ed è uno dei massimi capolavori dell’arte gotica esistenti al mondo.

Ha struttura esagona; la cassa a specchiature marmoree con scene del Vangelo ad altorilievo è sostenuta da archi ogivali poggianti su colonne di marmo rosso, con basi alternativamente a dado e figurate. Il pulpito è composto di tre parti, che corrispondono a tre livelli di significato: il mondo del simbolo o concetto figurato, alla base; l’Antico Testamento, nella zona degli archi ogivali; il Nuovo Testamento, nella cassa. In questo modo si voleva indicare visivamente la progressiva ascesa della mente a Dio attraverso livelli di esperienza religiosa sempre più perfetti e puri. Perciò nella parte bassa le figure alludono al mistero del peccato e della redenzione: il vecchi “telamone” gravato dal peso della colonna significa il peccato originale, il leone che azzanna il cavallo rimanda alla figura di Cristo che domina gli istinti sfrenati della natura umana, la leonessa che allatta i suoi cuccioli tenendo fra le zampe un coniglio rappresenta la Chiesa madre dei fedeli e sposa di Cristo, che si nutre di reverenziale obbedienza. Al secondo livello sono rappresentati profetesse e profeti del Vecchio Testamento, con il compito di annunciare e “preparare” il Nuovo Testamento, cui sono riservate le formelle della cassa soprastante. Queste sono cinque e raffigurano: 1) la “Natività” con l’"Annunciazione a Maria" (a sinistra) e l’"Annuncio ai pastori" (a destra); 2) l’"Omaggio dei Re Magi" con l’"Avvertimento ai Re Magi di non tornare da Erode" (a sinistra) e con l’"Angelo che avverte S. Giuseppe in sogno di fuggire in Egitto" (a destra); 3) la "Strage degli innocenti"; 4) la "Crocifissione"; 5) il "Giudizio Universale". Sugli spigoli, tra un riquadro e l’altro, si trovano le figure degli apostoli, di Cristo, di angeli, di un diacono.

Nessun altro capolavoro dell’arte gotica è dotato di una così intensa e travolgente forza espressiva. Giovanni Pisano coglie, con grande ricchezza di variazioni, la vasta gamma dei sentimenti umani e li confronta con il mistero del Divino. L’altissima tensione drammatica si sviluppa attraverso le linee vorticose di piani e profili, nell’emergere brusco e a scatti dei personaggi dal piano di fondo, da cui sembra si vogliano liberare a forza per emergere appassionatamente verso la luce.

Originariamente le scene e le immagini singole della cassa, così come della zona degli archi ogivali, erano impreziosite con il colore: le scritte nei cartigli dei Profeti, certi bordi dei manti ed altri particolari erano dipinti con una particolare tecnica, mentre i fondi delle scene erano campiti con minuti disegni geometrici in rosso, giallo, oro e blu coperti da vetro. L’insieme pertanto si presentava come una delicatissima e squisita opera dal punto di vista tecnico e decorativo, e come un travolgente e forte recupero di umanità nella storia sacra, dal punto di vista dell’espressione formale.

Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas

 

La chiesa di San Giovanni Evangelista, detta San Giovanni Fuorcivitas è un importante complesso romanico nel centro di Pistoia. L'appellativo Fuorcivitas ricorda che la chiesa, all'epoca della sua fondazione longobarda, si trovava al di fuori della prima cerchia di mura cittadine.

Storia - L'edificio longobardo non ha lasciato traccia: la prima attestazione documentaria è del 1119, quando la chiesa viene definita dal vescovo Ildebrando praticamente in rovina (paene destructa). L'attuale edificio fu iniziato probabilmente poco dopo. I lavori si protrassero fino al 1344. Nei documenti dell'Archivio vescovile di Pistoia sono documentate le commissioni dei lavori di completamento del fianco nord (1323) e del lato absidale ad est (1344).

Descrizione

L'esterno e il chiostro - L'edificio si presenta regolarmente orientato, col lato settentrionale, parallelo alle scomparse mura, in grande evidenza mentre il lato meridionale dà sul chiostro, e facciata e lato absidale sono malamente visibili, a causa degòi edifici che quasi toccano la fabbrica. Il fianco nord, di conseguenza è stato sempre considerato la vera facciata ed infatti reca al centro il ricco portale con l'architrave scolpita e firmata da maestro Gruamonte che vi raffigurò l'Ultima Cena (datato 1166). L'opera mostra Gesù a tavola con undici apostoli, mentre Giuda è raffigurato in basso davanti a lui, a sottolineare la sua estraneità alla santità del gruppo. Le figure sono fisse e schematicamente ripeture, con le pieghe ritmiche della tovaglia che creano ampie onde davanti a ciascun personaggio, sembrando quasi un prolungamento delle toghe.

La fiancata presenta un'ornamentazione caratteristica del romanico a Pistoia, che imita il paramento murario tipico del romanico pisano, a file di arcatelle su lesene o colonnette con finestrelle e losanghe che si inscrivono negli archi, ma realizzata impiegando una decorazione dicroma bianca e verde (marmo e serpentino di Prato) che diventa così fitta da sovrastare otticamente il pur complesso partito architettonico. La chiesa così ricostruita, a navata unica con abside ad est, fu sottoposta al Proposto di Santo Stefano di Prato, sotto il cui patronato rimase circa un secolo. Alla fine di questo periodo la chiesa fu ampliata, distruggendo l'abside e prolungando il fianco nord, e inglobando il lato nord del chiostro. Assunse così la pianta ad aula monoabsidata rettangolare che conserva a tutt'oggi.

Ciò che resta del chiostro del secolo XII rappresenta l'unico esempio a Pistoia di costruzione romanica con paramento misto di pietre e laterizio: sono in pietra le colonnine, adorne di capitelli con teste di leoni e di buoi, in mattoni gli archi e i muri piani. Nel XIV secolo il chiostro fu sopraelevato con una loggia.

Interno - A sinistra dell'ingresso, sul muro settentrionale è collocato il gruppo in terracotta invetriata bianca che rappresenta la Visitazione, opera di Luca della Robbia. Si tratta del primo esempio conservato di terracotta invetriata a tutto tondo realizzato nella bottega dei della Robbia con la tecnica dell'invetriatura. In origine le due figure erano arricchite da dorature a freddo sui capelli e sulle vesti. L'opera fu commissionata nel 1445 dalla famiglia pistoiese dei Fioravanti e fu collocata probabilmente sul lato opposto a quello attuale. La separazione del piedistallo delle due figure, che pure si toccano, espediente tecnico per ridurre il rischio di fratture durante la cottura, rende più significativo l'allacciarsi delle braccia e l'incontro degli sguardi tra la Vergine che invita a rialzarsi Santa Elisabetta e quest'ultima genuflessa e implorante.

Di grande importanza è l'acquasantiera marmorea (XII-XIII secolo), al centro della navata, con le Virtù Cardinali, forse di Giovanni Pisano nella parte superiore, sostenuta dalle cariatidi delle tre Virtù teologali, per cui è stato proposto come autore un allievo della taglia di Nicola Pisano. Non manca chi attribuisce tutto il complesso a Nicola o a Giovanni.

Addossato alla parete sud il Pergamo di Fra' Guglielmo da Pisa, per il quale è stata suggerita anche una collaborazione di Arnolfo di Cambio. Realizzato nel 1270, fu collocato inizialmente nel presbiterio romanico, poi smontato nel 1625 e ricollocato nella posizione attuale (1778). Le sculture ad altorilievo di marmo apuano risaltavano su uno sfondo in vetri policromi solo in parte conservati. Vi sono raffigurati Evangelisti (negli angoli della cassa e al centro del lato lungo) e Scene del Vangelo. I due leoni stilofori, collocati parallelamente alla navata nel 1778, sono stati riportati alla posizione originaria nel 1947.

Fra le pitture, da segnalare sulla parete sinistra del presbiterio il polittico di Taddeo Gaddi dipinto nel 1350-1353 raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Iacopo, Giovanni Evangelista, Pietro e Giovanni Battista. Al di sopra delle figure maggiori, entro archetti gotici e colonnine tortili altre figure di santi a mezza figura e nella cimasa l'Annunciazione in una bifora sovrastata dalla figura del Padre Eterno inserita in una cornice polilobata. Del 1307, sono gli affreschi con Storie della Passione nel coro, attribuiti al Maestro del 1310.

 

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Pulpito di Guglielmo Pisano

 

San Giovanni Fuoricivitas, pergamo di Fra’ Guglielmo da Pisa

Addossato alla parete sud della chiesa, ha probabilmente visto la collaborazione di Arnolfo di Cambio. Realizzato nel 1270, fu collocato inizialmente nel presbiterio romanico, poi smontato nel 1625 e ricollocato nella posizione attuale (1778).Il pergamo poggia su due colonne in marmo rosato sostenute da altrettanti leoni ognuno con una capra fra le zampe anteriori. Le tre facce che costituiscono la cassa presentano un doppio ordine di scene della vita della Vergine e di Gesù. Agli angoli sono due gruppi di tre apostoli ciascuno, sormontati da leggii; al centro del lato lungo il tetramorfo, cioè l'immagine composita dei simboli dei quattro evangelisti: l'angelo di Matteo, il toro di Luca, il leone di Marco e infine, superiormente, l'aquila di Giovanni. Le scene raffigurate sono, sul lato sinistro, l'Annunciazione e la Natività con l'Adorazione dei Magi. Sul pannello centrale, la Lavanda dei piedi e la Crocifissione, a sinistra; la Deposizione e la Discesa di Cristo al Limbo, a destra. Nel pannello destro, l'Ascensione e la Discesa dello Spirito Santo e la Morte della Vergine. L'autore dei rilievi fu collaboratore di Nicola Pisano al quale si ispira per la disposizione equilibrata dei personaggi, per la chiarezza formale, rimandando alla produzione classica di sarcofagi tardo-antichi e paleocristiani. Non mancano citazioni da fonti figurative di origine orientale ed elementi di preziosa eleganza nei fondi decorati da disegni geometrici colorati e smaltati.

Il reliquiario del legno della croce

 

L’iscrizione sulla base attesta che del reliquiario fu autore l’orafo fiorentino Rombolo di Salvo nel 1379, ma l’opera fu terminata solo nel 1383. Tale orefice, da qualche tempo stabilitosi a Pistoia, faceva allora parte di una compagnia o associazione d’arte con altri due colleghi pistoiesi, Andrea di Piero Braccini e Filippo di Andrea di Puccino Baglioni, l’ultimo dei quali portò a termine l’oggetto liturgico: pertanto questo deve ritenersi frutto della collaborazione di tre artisti. E’ in stile tardo-gotico, con accentuati riferimenti nordici. La base e il fusto simulano un’architettura di tipo oltramontano, minutamente adorna di torricelle, edicole, pinnacoli, statuette; vi sono persino, a sorreggere la ricchissima parte centrale, quegli animali fantastici a forma di drago che adornano guglie e sporgenze delle grandi chiese gotiche europee.

Sulla parte superiore del fusto è impostata la figura di un angelo a mezzo busto, dalle acute ali spiegate, che sorregge fra le due braccia aperte una cassettina, finemente incorniciata con decorazioni d’argento a rosoni sui lati, un tempo in prezioso cristallo di rocca, poi sostituito con brutte lastre di vetro. Il contenitore reca all’interno una reliquia “della Vergine”, ivi posta fra ‘600 e ‘700, donde il nome di “Reliquiario della Beata Vergine” che l’oggetto assunse in epoca tarda.

La figurina svelta ed espressiva dell’angelo, dalle mani sottili e magre, dal volto arguto, quasi caricaturale, incorniciato da una folta corona di riccioli serpentini, rimandano ad un gusto internazionale allora di moda negli ultimi decenni del ‘300, assai seguito anche nelle botteghe fiorentine e pistoiesi d’oreficeria, che più guardava alla minuzia decorativa e allo sfoggio di bravura tecnica, più alla ricca bizzarria dell’invenzione che a trovare forme di più riposata e armoniosa bellezza.

La basilica della Madonna dell’Umiltà

 

L’edificio, a piante centrale ottagona sormontata da cupola e preceduta da un vestibolo con cupoletta centrale a calotta emisferica, è la più importante testimonianza rinascimentale dell’architettura monumentale pistoiese.

La costruzione del tempio fu deliberata nel 1494, per dotare di una più degna sede una immagine miracolosa ad affresco, raffigurante la Madonna dell’Umiltà, dipinta nel ‘300 da un ignoto pittore sulle pareti della chiesetta di S. Maria Forisporte. Questa effigie il 17 luglio 1490 avrebbe emanato sudore sanguigno per significare il dolore della Vergine per le lotte fratricide che allora funestavano la città.

Il 3 settembre 1495 il vescovo di Pistoia, Niccolò Pandolfini, pose la prima pietra del nuovo edificio, mentre veniva abbattuta l’antica chiesetta medioevale, lasciando in piedi solo la porzione di muro che conteneva l’immagine miracolosa. Il progetto si deve probabilmente a Giuliano da Sangallo (1443 circa – 1516), famoso architetto fiorentino, che poco prima, fra il 1489 e il 1491, aveva realizzato la sagrestia della chiesa di S. Spirito a Firenze, a pianta ottagonale con vestibolo, con struttura analoga al successivo edificio pistoiese. Nella fase iniziale dei lavori egli fu coadiuvato dal fratello Antonio (1453–1534), che venne a misurare le fondamenta della chiesa.

La costruzione fu affidata al legnaiolo e architetto pistoiese Ventura Vitoni, che in seguito subentrò modificando anche parte del progetto e soprattutto dell’intelaiatura decorativa interna.

La grande mole della “fabbrica” rimase interrotta, alla morte del Vitoni (1522), ma già i lavori languivano, per mancanza di adeguati finanziamenti, fin dal 1509. Completato il vestibolo, con belle volte ricoperte da cassettoni marmorei con fiorone inserito al centro, era rimasta da finire la tribuna, arrivata al secondo livello delle finestre, e restava da impostare la cupola.

Questa fu realizzata dall’architetto Giorgio Vasari fra il 1561/2 e il 1567, con l’accrescimento di un terzo livello al tamburo ottagonale, su cui fu impostata la solenne cupola a spicchi con lanterna alla sommità, ad imitazione di quella celebre del Brunelleschi per il duomo di Firenze. Verificatisi gravi dissesti statici proprio alla cupola, intervenne a sanarli l’architetto granducale Bartolomeo Ammannati (fra il 1575 e il 1585), cui fu anche affidato l’incarico di terminare la decorazione delle cappelle dell’ottagono e di trasportare nel luogo dell’attuale altare maggiore, con ardita operazione di distacco perfettamente riuscita, l’immagine miracolosa della Madonna (1579). La chiesa fu inaugurata il 31 dicembre 1582.

L’altare maggiore, ove si trova l’affresco staccato della Madonna dell’Umiltà, è opera dello scultore manierista fiorentino Pietro Tacca (1612); la balaustra del presbiterio venne progettata dall’architetto pistoiese Jacopo Lafri nel 1597, mentre i quattro angioletti reggi-candelabro sopra di essa sono di Domenico Marcacci e di Pietro Tacca. La basilica e la sagrestia contigua sono ricche di pregevoli opere d’arte di vario genere.

La cattedrale di San Zeno

 

La prima testimonianza documentaria è del settembre 923, ma l’edificio altomedioevale cui si riferiva il documento fu sostituito da una più ampia costruzione, ancora in corso nel secondo decennio del secolo XII, conservatasi fino ad oggi, sia pur con varie aggiunte e trasformazioni.

E’ un’ampia chiesa romantica a tre navate suddivise da colonne, presbiterio rialzato e cripta sottostante originariamente coperta da volticciole a crociera multiple sorrette un tempo da colonnette. L’antica struttura triabsidata, in cui l’abside maggiore aveva mantenuto, fino al tardo Rinascimento, il ricco ornamento a figure in mosaico, risulta sostituita, fra il 1598 e il 1614, da un’ampia tribuna centrale sormontata da cupola e da due cappelle laterali. La copertura è a capriate in vista, finemente dipinte, nella navata centrale, mentre è composta da serie di volte nelle navate minori.

All’esterno, in prossimità della facciata, sul lato nord, sorge l’alta e severa torre campanaria in conci di arenaria a filaretto e sottolineature bicrome nella parte alta dove si aprono le bifore, datata alla sua base all’anno 1200. La facciata, in stile romanico pisano-lucchese, è attualmente il risultato di interventi e aggiunte di tempi diversi. Il portico fu costruito, così come oggi si vede, nel secolo XIV e completato verso la metà del XV; la grande arcata della volta a botte sovrastante il portale maggiore, così come la lunetta del medesimo, vennero decorate da Andrea della Robbia nel 1505.

La chiesa è ricchissima di opere d’arte di varie epoche, fra cui si ricordano il celebre altare d’argento di S. Jacopo (secoli XIII-XV) e la tavola d’altare raffigurante la

˝Madonna col Bambino˝, ˝S. Giovanni Battista˝ e ˝S. Donato˝, commissionata al fiorentino Andrea Verrocchio e terminata dal suo collaboratore Lorenzo di Credi poco dopo il 1485.

La tribuna della cappella maggiore, progettata dall’architetto pistoiese Jacopo Lafri alla fine del ‘500, subì rifacimenti fra il 1836 e il 1839 sotto la direzione dell’arch. Pistoiese Giovanni Gambini; la volta fu dipinta da Domenico Cresti, detto Passignano, e dal senese Pietro Sorri (1602-1603); i tre quadroni si devono rispettivamente a Cristoforo Allori detto il Bronzino (“Resurrezione”), a Gregorio Pagani (“Discesa dello Spirito Santo”), a Benedetto Veli (“Ascension”), entro il primo quindicennio del ‘600.

La Chiesa di San Bartolomeo

 

L’attuale edificio, in stile romanico, risale alla metà del secolo XII e fu costruito dove in precedenza esisteva una più antica chiesa di fondazione longobarda, eretta poco dopo il 726 da Gaidoald, medico del re Desiderio. Vi fu annesso un monastero di Benedettini e un chiostro, ricordato nel 1127. Al complesso monumentale si univa anche un ospizio per pellegrini, poveri e viandanti, il cui portico si affacciava sulla via, nel 1182. Nel 1443 passò sotto i Canonici Lateranensi e nel 1779 ai Vallombrosani. Dopo la soppressione del monastero sotto l’impero francese (1810) parte della sede conventuale passò in proprietà al Comune di Pistoia, mentre la chiesa divenne parrocchiale. L’attuale aspetto di quest’ultima risulta da una serie di trasformazioni avvenute durante il tempo, che tuttavia non alterarono sostanzialmente l’originaria struttura romanica, ripristinata con i restauri condotti dalla Soprintendenza fiorentina fra il 1951 e il 1961. La facciata, rimasta fin dal secolo XII incompleta nella parte superiore (poi ristrutturata nel ‘700), si articola nella zona inferiore in modo assai simile a quella della chiesa di S. Andrea, ma con diverse proporzioni ed una maggiore snellezza nelle colonne sorreggenti le arcate cieche includenti rombi a incasso (dei quali i due laterali sostituiti, durante il Rinascimento, con oculi classicheggianti). Il portale maggiore è, del pari, ornato da lunetta a conci bicromi, impostata su due leoni di profilo, e da un architrave figurato su cui è scolpita a bassorilievo la “Missione degli apostoli” da scultore romanico provenzaleggiante affine a Gruamonte.

L’interno, ampio e severo, è a tre navate separate da file di colonne adorne di bei capitelli, scolpiti talvolta con figure fantastiche, ed ha tre absidi semicircolari. L’abside centrale, di belle proporzioni, è ancora decorato nel catino con un raro affresco duecentesco, di recente attribuito a Vigoroso da Siena (1260 circa), raffigurante “Cristo fra S. Bartolomeo e S. Giovanni evangelista e angeli”. La chiesa come tutte quelle romaniche pistoiesi, è coperta da tetto a capriate in vista. Durante i recenti restauri è stato rimesso in luce l’originario pavimento in coccio pesto, peraltro largamente integrato.

Fra le opere d’arte custodite all’interno sono il pulpito marmoreo di Guido da Como (1250), un pregevole crocifisso di legno dipinto attribuibile al secolo XIII, di intensa espressività, diversi affreschi trequattrocenteschi recuperati durante l’ultimo restauro. Sul fianco settentrionale della chiesa sorge, massiccia, l’ampia base della romanica torre campanaria, mozzata per esigenze belliche nel ‘500 e sostituita in elevato da altra posteriore struttura.

Il Pulpito di Guido da Como

 

 Chiesa di S.Bartolomeo, pergamo di Guido Bigarelli da Como
Il pergamo è l'opera di maggiore interesse all'interno della chiesa. Secondo alcuni studi le lastre scolpite raffiguranti gli episodi post mortem della vita di Cristo, cui si riferisce l'iscrizione con la data 1236, sarebbero appartenute all'antico pulpito della Cattedrale, tradizionalmente attribuito a Guido Bigarelli da Como; originario di una famiglia di scultori e architetti dell’attuale Canton Ticino: il padre Bonagiunta Bigarelli era molto probabilmente fratello di Lanfranco da Como, entrambi attivi già dagli anni venti del Duecento a Pistoia. Le formelle affisse alla parete, datate 1250 e raffiguranti episodi dell'infanzia di Gesù, sarebbero appartenute al pulpito della chiesa di San Bartolomeo. Studi più recenti sostengono invece che tutte le formelle provengono dallo stesso pergamo, che sarebbe stato eseguito per questa chiesa in due fasi successive.

 

La Chiesa di Sant’Andrea

 

Fin dai più antichi documenti la chiesa risulta avere il titolo di pieve; sorgeva fuori della prima e più antica cerchia di mura urbane ed aveva (unica di tutte le chiese suburbane) funzione battesimale. L’attuale edificio risale al secolo XII ed è in stile romanico; non è possibile arguire, dalle strutture murarie di fondazione rinvenute durante scavi effettuati verso il 1960 (il perimetro di un piccolo vano rettangolare monoabsidato, al centro della navata mediana), alcun elemento utile per ipotizzare la – pur probabile – esistenza di una costruzione precedente, dato che i saggi furono effettuati in totale assenza di controllo archeologico da parte di esperti.

L’interno, solenne e severo, presenta l’antica articolazione spaziale di tipo basilicale, con robuste colonne e muraglie in pietra a filaretto di armoniosa orditura, una sola abside alta e stretta illuminata da monofore sovrapposte e copertura lignea a capriate dipinte. Simile a molte altre chiese romaniche toscane, ha però la particolarità di essere lunga e stretta, con un suggestivo effetto di verticalismo, accentuato anche dal gioco chiaroscurale.

La facciata, all’esterno, è di tipo pisano, con alte colonne addossate alla parete sorreggenti arcate cieche con ghiera sporgente, includenti rombi a incasso; tuttavia è originale, e tipico dell’ambiente pistoiese, il rivestimento bicromo a minute decorazioni geometriche della fascia alta soprastante gli archi. La parte superiore, non completata, rivela nei diversi livelli la tripartizione delle navate. Il portale centrale, assai più grande dei due laterali, è l’unico ornato con rilievi, fra cui spicca l’architrave con il “Viaggio dei Re Magi” e l’”Epifania”, datato 1166 e firmato dagli scultori provenzaleggianti Gruamonte e suo fratello Adeodato, mentre maestro Enrico risulta autore dei capitelli degli stipiti, dove sono raffigurati l’”Annuncio ad Elisabetta” (a sinistra) e l’”Annuncio a Maria” (a destra), con popolaresca e rude vivacità.

All’nterno si trovano tre pregevoli opere d’arte: il celebre pulpito marmoreo di Giovanni Pisano, terminato nel 1301; un crocifisso ligneo dipinto attribuito allo stesso artista, e un altro crocifisso simile, di stretto seguace e di pari qualità.

La pieve di San Giovanni

(Val di Bure)

 

Il severo edificio, a nave unica monoabsidata e transetto, sorse probabilmente nella seconda metà del secolo XII: il primo ricordo documentario è nella Bolla di papa Urbano III del 21 maggio 1187. Originariamente dedicata, come molte pievi del territorio pistoiese, a S. Giovanni Battista, dal 1541 risulta avere anche il nuovo titolo di S. Giovanni Evangelista, che infine ha prevalso.

Sorge su di un’altura a controllo della Valle della Bure, lungo la quale un antico itinerario valicava l’Appennino tosco–emiliano in direzione di Bologna. Per l’importanza strategica e militare fu anche teatro di diversi fatti d’arme e luogo di ritrovo o di concentramento di truppe, specialmente nel Medioevo e durante l’età moderna. Per questo motivo l’imponente e massiccia torre campanaria, che sorge sul fianco nord in prossimità del transetto, aveva anche funzioni difensive e di avvistamento. L’edificio è tipico del romanico, quale è testimoniato nella montagna pistoiese in vari esemplari, tutti accomunati da sobria semplicità. L’orditura muraria è in conci di pietra a filaretto; è assente ogni decorazione, perfino nella spoglia facciata su cui si apre un solo portale.

L’interno, coperto da tetto a capriate lignee in vista, presenta il transetto e la zona presbiteriale nettamente rialzati rispetto al piano della navata. Come le chiese di montagna, non ha finestre sul lato nord, a causa delle intemperie invernali, ed ha strette monofore sul lato meridionale, dove sorge, intorno ad una corte quadrangolare, la casa canonicale.

L’abside, dove si apre una sola finestrella centrale, fu affrescata in diversi tempi: durante i restauri del 1974 è stata rimessa in luce la figura di Cristo “pantocrator” entro un nimbo circolare, probabilmente dipinta nel corso del ‘500, e sono state ripulite le sottostanti “Storie di S. Giovanni Evangelista”, affrescate da ignoti pittori nel 1709. L’attuale aspetto dell’interno (ripristinato verso il 1960) si deve ad interventi di ristrutturazione iniziati nel 1574 e più ampiamente ripresi entro il primo quarantennio del secolo XVIII, quando furono eretti gli altari laterali e realizzate la scalinata ondulata e la balaustra.

La pila dell’acqua santa

 

La splendida e relativamente meno conosciuta opera dei Pisano e collaboratori è databile al 1270 circa, quando la “taglia” di Nicola Pisano era presente a Pistoia per il pergamo eretto nella medesima chiesa e per altri lavori commissionati nel 1272 per la cappella di S. Jacopo in duomo, oggi perduti. Sull’attribuzione la critica non è concorde, ma l’acquasantiera è da ritenersi eseguita sotto la direzione dello stesso Nicola Pisano, che dobbiamo considerare autore del progetto disegnativo e probabilmente anche delle quattro raffinatissime figure di Virtù scolpite a mezzo busto e in rilievo sul bacile, mentre ad altro più classicheggiante collaboratore si devono le tre Virtù a figura intera che costituiscono il fusto.

Il delicato arredo liturgico poggia su base esagonale finemente profilata, come il piede di un calice o di un reliquiario in metallo prezioso. Su questa è impostato l’elemento verticale di sostegno, composto dalle tre Virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), recanti ciascuna il proprio attributo nelle mani e scolpite in un solo blocco di marmo dalla bella tonalità avorio, che esalta le forme piene e morbide sboccianti dal ricco panneggio gotico delle vesti. Il bacile poligonale sagomato è invece arricchito dalle mezze figure delle Virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza) di estenuata dolcezza plastica e di aristocratica eleganza. Una particolarità degna di nota è che questo pezzo dell’acquasantiera è ricavato da un sol blocco marmoreo alabastrino di eccezionale bellezza e trasparenza, che, illuminato dall’interno, dà alle figure il caldo colore della cera.

La Visitazione

 

La scultura, in terracotta invetriata di bianco, rappresenta l’abbraccio di Maria e di S. Elisabetta che, commosse, intuiscono di essere madri. Fu commissionata dalla Compagnia della Visitazione, che aveva nella chiesa di S. Giovanni Forcivita un altare, ma ne è ignoto l’autore. La critica, in un primo tempo incerta fra Luca (1400 circa – 1482) e Andrea della Robbia (1435–1525), propende attualmente per il secondo degli importanti scultori fiorentini, dato che costui fu a lungo operoso per l’ambiente pistoiese dopo gli inizi del ‘500. Dal punto di vista formale e per la tipologia delle figure, l’opera può essere avvicinata al rilievo con la Madonna col Bambino e angeli, eseguito per la lunetta del portale centrale della cattedrale pistoiese nel 1505, ma se ne distacca per una più intensa e commossa espressività. Le due figure della Vergine, dal volto purissimo di fanciulla appena adolescente, e dell’anziana Elisabetta, futura madre di Giovanni Battista, si fronteggiano nell’abbraccio, in un intenso ma pudico dialogo di sguardi. La più attempata delle due donne, in un rapporto di dignità rovesciato, è inginocchiata in segno di umiltà dinanzi alla giovane, come riconoscendone per grazia divina la superiorità. I due personaggi si inscrivono entro uno schema triangolare che ne esalta i profili e li rende adatti ad una visione frontale. Le strutture corporee si articolano per piani larghi e dolci, animati dal rilievo delle profilature del panneggio, di ricordo ancora goticheggiante. L’invetriatura di colore bianco puro, che ricorda da vicino i più alti risultati di Luca della Robbia, imita l’essenzialità del marmo statuario, ma con un calore più terrestre, che ben si adatta all’intimità tutta femminile dei sentimenti espressi.

L’altare di San Jacopo

 

Monumentale opera di oreficeria gotica e rinascimentale dedicata al santo patrono della città, è uno dei più rari e preziosi oggetti d’arte di Pistoia. Iniziato nel 1287 e successivamente ampliato da vari artisti, raggiunse il suo aspetto definitivo nel 1456; trasformato durante i secoli XVI – XVIII, fu ricomposto e restaurato fra il 1949 e il 1950 dalla Soprintendenza alle Gallerie di Firenze e sotto la direzione di Giuseppe Marchini. L’arredo liturgico, che originariamente stava in una apposita cappella, nel duomo pistoiese, la quale oggi più non esiste, non è nato fin dal principio secondo un progetto ben definito, ma ha acquistato la sua forma per aggiunte successive. Inizialmente si trattò di una tavola d’argento dorato che recava, a rilievo, le figure della “Vergine in trono e i dodici apostoli”, commissionata nel 1287 per stare sopra l’altare marmoreo della cappella di S. Jacopo. Circa l’autore, il cui nome non risulta dai documenti, sono state fatte diverse ipotesi. Si è pensato al senese Pace di Valentino, oppure al pistoiese Andrea di Jacopo d’Ognabene: quest’ultimo, che fu molto importante in patria e fuori, fu anche l’autore del paliotto frontale dell’altare, terminato nel dicembre 1316, dove sono raffigurate “Storie della Vergine, di Cristo e di S. Jacopo” in 15 riquadri. Il maestro, la cui grande perizia tecnica si manifesta anche negli smalti traslucidi che ornano il paliotto, risente dello stile di Nicola e Giovanni Pisano, sommi esponenti della prima scultura gotica italiana, ma trova un linguaggio espressivo tutto suo nelle forme morbide e gravi, dove la solennità dei gesti si vena di umana commozione e il plasticismo s’ingentilisce per i fini valori luminosi. Fra il 1361 e il 1371 venne completato il rivestimento dell’altare con i due paliotti laterali sbalzati in argento dorato dai fiorentini Francesco Niccolai e Leonardo di ser Giovanni, che vi raffigurarono rispettivamente le “Storie della Genesi e dell’Antico Testamento” e le “Storie di S. Giacomo”, con più maturo stile gotico e più vivace naturalismo. La parte superiore, con una selva di statuette entro edicole, si deve al progetto di Piero d’Arrigo Tedesco, che fra il 1380 circa e il 1390 attese all’esecuzione della maggior parte di esse, riutilizzando però le figure dell’antica tavola argentea del 1287, e al centro pose entro un’ampia nicchia la statua di S. Jacopo, eseguita da Giglio Pisano fra il 1349 e il 1353 con raffinata e lirica eleganza. Il coronamento invece, su progetto del pittore Giovanni di Bartolomeo Cristiani, si deve al fiorentino Nofri di Buto e al pistoiese Atto di Piero Braccini (1394-1398), che vi raffigurarono una “Maestà attorniata da angeli musicanti”. I lati della parte superiore o dossale, con statuette di santi, furono completati da vari orafi del primo Rinascimento, fra cui spicca, per intensità espressiva, il giovane Filippo Brunelleschi, che ha lasciato qui le uniche, rarissime prove della sua abilità di orafo scultore, eseguite nell’anno 1400.

La reliquia

 

I documenti dell’Opera di San Jacopo, un’istituzione formata da laici risalente al 1160 circa, ci parlano di un tale Ranieri, un ecclesiastico pistoiese educato alla scuola del vescovo Atto, che lasciò la sua città natia per approfondire la propria formazione spirituale. Tra la Francia e l’Inghilterra, costui fece tappa nella Galizia spagnola toccando il santuario di Compostela, dove erano conservate le reliquie del santo e ivi diventò un membro importante di questa chiesa. A tal proposito il vescovo Atto, desideroso di offrire alla città di Pistoia una reliquia del santo venerato, chiese a Ranieri di mediare affinché la ottenesse dall’arcivescovo e dai canonici di Compostela.

L’Arcivescovo Didaco, volendo esaudire le pressanti richieste del vescovo Atto e del diacono Ranieri, a lui particolarmente caro, fece aprire il sarcofago in cui si conservava il corpo del santo Apostolo e v’introdusse

la mano, con l’intento di staccare dalla testa una ciocca di capelli. Sennonché, insieme ai capelli, venne su

anche un frammento d’osso di piccole dimensioni.

Furono mandati a prendere la reliquia due pistoiesi:Mediovillano e Tebaldo.
Il loro ritorno a Pistoia ai primi di luglio del 1144 fu accolto con grandi celebrazioni. Per conservare adeguatamente la preziosa acquisizione fu fatta costruire nellaCattedrale di San Zenouna cappella dedicata a San Jacopo, consacrata il 25 luglio del 1145, dove fu posto un altare argenteo sul quale era esposto il reliquiario.

Ma chi era Giacomo il Maggiore? Fu uno dei discepoli prediletti da Gesù; decapitato nel 42 d.C. fu il primo martire e il suo corpo, approdato miracolosamente in Spagna, diede origine ad un culto millenario, ancor oggi molto vivo. La basilica di Compostela (da campus stellae, dove una stella miracolosa avrebbe indicato il luogo della sepoltura) divenne, con Gerusalemme e Roma, uno dei tre più noti e praticati luoghi di pellegrinaggio.

Anche molti Pistoiesi si recavano nella Galizia spagnola a pregare sulla tomba del loro patrono. Nella sacrestia nuova del Palazzo dei Vescovi si trova la raffigurazione della partenza di un gruppo di pellegrini locali, forniti di galero (il cappello contro la pioggia e il sole), pellegrina (il corto mantello da viaggio) e bordone (il bastone d'appoggio, che serviva anche come arma da difesa).

Amministrata dall'Opera di san Jacopo la reliquia divenne  una delle maggiori mete di pellegrinaggio dell'Italia centrale contribuendo così alla crescita economica di Pistoia che per il Santo ha sempre professato un  culto e un attaccamento particolari.

La reliquia è ora conservata nel reliquiario di S. Jacopo (1407) attribuito a Lorenzo Ghiberti nel Museo Capitolare.

Pistoia ha dedicato a San lacopo uno dei suoi grandi capolavori: l'altare d'argento

Lo Spedale del Ceppo

 

Fondato, come sembra, verso il 1277 da un sodalizio di pie persone, che nel ‘300 erano denominate “Società di S. Maria Vergine del Ceppo”, l’ospedale sorgeva sulle rive di un torrentello che lambiva sul lato nord parte delle più antiche mura urbane di Pistoia: la Brana. Fu consistentemente ampliato, in seguito a numerosissimi lasciti testamentari, nel periodo successivo alla “peste nera”, che infuriò in Italia nel 1348/49. Durante il secolo XV la sua importanza crebbe insieme con la specializzazione delle funzioni ospedaliere, tanto che divenne l’ospedale civico cittadino.

Una riorganizzazione e razionalizzazione dei vari corpi di fabbrica, fino ad allora cresciuti un po’ casualmente intorno al nucleo più antico, fu iniziata fra il 1451 e il 1456 dall’architetto fiorentino Michelozzo di Bartolomeo, che diede anche il progetto dell’ampio, rinascimentale loggiato di tipo brunelleschiano, assai simile all’altro, da lui pure ideato, dello Spedale di S. Paolo (1456-1459) che si affaccia su Piazza S. Maria Novella a Firenze. Altri interventi, anche al loggiato, furono effettuati negli ultimi decenni del ‘400 sotto la direzione di Giovan Battista di Antonio di Gerino. Passato, ai primi del ‘500, alle dipendenze dello Spedale fiorentino di S. Maria Nuova, allora diretto dal Leonardo Buonafede, per volontà di costui il loggiato dello Spedale del Ceppo fu adornato con i riquadri, in terracotta invetriata, raffiguranti “Le sette opere di misericordia”, che corrono tutto intorno alle pareti ovest e sud del loggiato, a occidente, raffigurandovi, sempre in terracotta invetriata, “Dio Padre che incorona la Vergine in gloria” (1512), ancora col gusto neoquattrocentesco delle figure bianche su fondo azzurro.

Dopo aver eseguito, nel 1515, anche un medaglione circolare con lo stemma del Ceppo, sembra che egli abbia iniziato i tondi policromi poi collocati all’incontro degli archi del loggiato; ma, alla sua morte, questi furono eseguiti, nel 1525, da Giovanni della Robbia. Nei cinque medaglioni, incorniciati da ghirlanda rinascimentale a fiori e frutti, sono raffigurati, da sinistra a destra: lo stemma dello Spedale del Ceppo; l’”Annunciazione”, la “Gloria della Vergine”, la “Visitazione”, lo stemma dei Medici. Dei sette riquadri con le “Opere di misericordia” ciascuno di ampiezza pari a quella di un’arcata del loggiato, uno è sul fronte ovest e raffigura “Vestire gli ignudi” e “Assistere le vedove e gli orfani”. Gli altri dei sono sulla facciata e rappresentano, da sinistra a destra: “Alloggiare i pellegrini”, “Visitare gli inferni”, “Visitare i carcerati”, “Seppellire i morti”, “Dar da mangiare agli affamati”, “Dar da bere agli assetati”. Eleganti ed espressive figure di virtù separano le formelle, così disposte da sinistra a destra: “Prudenza”, “Fede”, “Carità”, “Speranza”, “Giustizia”. Sugli angoli due figure di Sfinge alludono alla “preveggenza del futuro”. Ne fu autore Giovanni della Robbia e poi Santi Viviani (1527-1530); l’ultima formella è invece opera di Filippo di Lorenzo Paladini (1586).

Madonna col bambino

 

La bella tavola rinascimentale era in origine il principale ornamento della Cappella della Vergine di Piazza, presso il duomo di Pistoia, costruzione iniziata per volontà del vescovo Donato Medici e terminata dopo la sua morte, avvenuta nel 1474. L’oratorio, dedicato alla Madonna, divenne perciò anche sacello funebre di quel vescovo e fu arredato e decorato dalla famiglia di lui. Per il quadro d’altare si ricorse ad uno dei più importanti artisti fiorentini del tempo: Andrea Verrocchio, protetto e molto apprezzato dai Medici. Si ritiene che l’incarico di dipingere la tavola risalga al 1478 o 1479; l’artista, a quel tempo molto impegnato in diversi lavori di rilievo, la iniziò, ma poi - sembra per mancanza di finanziamenti, ma forse anche perché troppo occupato altrove – la lasciò interrotta, come aveva lasciato incompiuto il monumento funebre in marmo, eretto in cattedrale in onore del cardinale Niccolò Forteguerri negli stessi anni. Come nel 1483 aveva richiesto un ulteriore stanziamento per finire il cenotafio, così nel 1485 aveva fatto giungere ai committenti la sua intenzione di finire il dipinto. Ma il maestro, nel 1486, si trasferiva a Venezia per eseguirvi il “Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni”; pertanto si incaricò di terminare il quadro Lorenzo di Credi, il principale collaboratore del Verrocchio.

La tavola, che rivela la dolcezza chiaroscurale e cromatica di Lorenzo di Credi, cui si deve la stesura definitiva, lascia però trasparire l’impianto disegnativi solido, equilibrato e sicuro del Verrocchio, specialmente nella figura del santo di destra (comunemente ritenuto S. Zeno, ma da interpretare come S. Donato, eponimo e protettore del vescovo Donato dei Medici) per il ricco panneggio e il vigore dei gesti. Ma l’espressione dolce e intimistica dei personaggi, la fine partitura delle velature chiaroscurali, l’organizzazione per masse statiche delle forme morbidamente rotondeggianti rivelano appieno la personalità di Lorenzo di Credi, allora chiaramente influenzato dal coetaneo Leonardo e attento ai risultati artistici di altri pittori coevi dell’ambiente fiorentino, come Domenico del Ghirlandaio.

Alcune idee figurative sembrano infatti desunte dalla “Madonna del garofano” (Monaco, Alte Pinakothek), dipinta da Leonardo fra il 1478 e il 1481. Altre invece dalla contemporanea tavola di Domenico del Ghirlandaio, con “Madonna e santi” (Firenze, Galleria degli Uffizi), dove alla base del trono della Vergine è steso un magnifico tappeto persiano, come nella tavola pistoiese. Ma in quest’ultima è più intenso e struggente il verismo, nella restituzione delle qualità materiche, che si evidenzia particolarmente nella ricca fisicità del tappeto in primo piano.

Collodi – Villa e Giardino Garzoni

 

La splendida villa al confine dell’attuale territorio provinciale pistoiese, fu fatta costruire da Romano Garzoni, membro di una delle più importanti famiglie lucchesi, intorno al 1633. Nei trenta anni successivi egli fece portare a termine la complessa sistemazione del giardino, con scenografici terrazzamenti e scalinate di gusto tardo-manieristico. E’ opinione comune che lo stesso proprietario sia stato l’ideatore del progetto d’insieme.La residenza patrizia, a sviluppo accentuatamente orizzontale e rettilineo si presenta nel prospetto sud su quattro piani con coronamento centrale sopraelevato, mentre è a tre piani sul versante nord, per l'accentuata pendenza di terreno.
La villa rivela con chiarezza la differenziata serie di funzioni cui era adibita: come azienda agricola, disponeva dell’intero piano seminterrato per la conservazione di vini e derrate alimentari. Per la residenza dei padroni era destinato il primo piano nobile, con l’ampia patriarcale cucina e il “chiesino”, l’oratorio privato. Si accedeva a questo piano, dopo aver attraversato l’ingresso a loggia interna, tipicamente lucchese, mediante un ampio scalone che conduceva anche al secondo piano nobile, composto da una lunga galleria dipinta a finte prospettive e da una serie di camere sul lato meridionale. Qui si susseguono la camera detta “della damigella”, lo studio con biblioteca, la “camera rossa” detta anche “di Napoleone”, la sala da pranzo, il salone centrale, il salotto dorato, un altro salottino di soggiorno e, sul lato est, la “camera dei gemelli” e la “camera verde”. Il lato ovest è invece adibito ad un funzionale snodo dei servizi, con scale interne che conducono ai piani alti del sottotetto, dov’erano i granai e gli alloggi della servitù, e portano anche, in basso, al cortile posteriore. Qui sorge, in posizione scenograficamente dominante, la settecentesca Palazzina d’Estate, opera dell’architetto Ottaviano Diodati, animata da bugnato rustico nelle incorniciature e dal mosso giuoco dei piani concavi e convessi della parete di facciata, vivacemente colorata, come il resto, in rosso antico.L'incantevole giardino sulla destra della villa, felicemente definito "sintesi di meraviglia e d'ingegno" (Francesco Guerrieri) e probabilmente progettato dallo stesso Romano Garzoni, assunse la sua forma attuale solo nel ' 700, quando Ottaviano Diodati completò la scenografia sistemazione con giuochi d'acqua e con il parterre, in basso, disegnato alla francese e adorno delle due ampie vasche circolari con zampillo. Concepito fin dall'inizio come luogo di delizie e con scoperte intenzioni erotiche, ha sull'asse centrale un'ampia scalinata a rampe, con giuochi d'acqua e statue allegoriche, sormontata dall'immagine della Fama, cui si affiancano le figure femminili rappresentanti la Pescia "fiorentina" (cioè facente parte del Granducato Toscano) e la Pescia "lucchese", che versavano abbondanti acque al giardino.

Il Santuario della Madonna della Fontenuova

( Monsummano )

 

Il tempio sorse sul luogo dove si trovava una venerata immagine della Madonna, entro un’edicola lungo una strada del piano, in località “Renatico” o “Pozzo vecchio”. Secondo la tradizione quella figura della Madonna avrebbe compiuto prodigi fin dal 1573; tuttavia l’evento più importante pare accaduto nel 1602, quando in tempo di siccità la devozione popolare attribuì alla Madonna miracolosa lo sgorgare di una nuova polla di acqua buona, cui seguirono diversi eventi straordinari. Tutto ciò richiamò folle di devoti e le prime oblazioni, tanto che, per volontà del granduca Ferdinando I dé Medici, si procedette alla costruzione di un santuario, che racchiudesse l’edicola con l’immagine santa.L’edificio, iniziato con solenne cerimonia di posa della prima pietra il 30 dicembre 1602, fu terminato per la parte strutturale nel 1605, su progetto dell’architetto granducale fiorentino Gherardo Mechini. Curò il procedere dei lavori del cantiere il capomastro pistoiese Domenico Marcacci. Il tempio tuttavia fu terminato soltanto nel 1633, dato il grosso impegno richiesto nella decorazione interna.La chiesa, in stile manieristico assai sobrio e quasi arieggiante modelli di tarda matrice quattrocentesca, è caratterizzata da un limpido volume a parallelepipedo, che allenta la sua compattezza con le arcate del porticato disposto su tre lati intorno all’unica navata. La profondità del portico è la stessa dello sporgere dei due transetti che formano, con il coro rettangolare dietro l’altar maggiore, una pianta a croce latina tipica dei santuari RINASCIMENTALI. Anche i retrostanti vani di sagrestia, che s’incastrano con precisione entro la sporgenza dei bracci del transetto, dalla parte opposta al porticato, si collegano attraverso una serie di locali organizzati in volute simmetrie, con la sede canonicale formando un compatto parallelepipedo. Dalle chiare volumetrie esterne, che subito rendono conto dell’articolazione spaziale interna, emerge al centro il campanile, che è opera leggermente posteriore (1650).Il santuario, per cui lavorarono alcuni dei più importanti artisti granducali, è ricco di opere d’arte ed ha un interessante “tesoro” di oggetti liturgici e di ex–voto in argento. Alcuni di questi, incorniciati in modo decorativo, sono stati impiegati per fare dà contorno all’immagine miracolosa della Madonna, inclusa al centro dell’altare maggiore, eretto fra il 1606 e il 1611.Questa, nel giorno della festa del santuario (9 giugno), viene incoronata con una splendida corona d’argento dorato e pietre preziose, di finissima fattura, donata da Cosimo II dé Medici nel 1608.Le lunette del loggiato esterno, dipinte dal pittore Giovanni da San Giovanni fra il 1630 e il 1633, di recente restaurati e ricollocati a posto, illustrano i momenti più importanti della storia dell’immagine miracolosa e del suo tempio: dal primo miracolo della pastorella, avvenuto nel 1573, alla posa della prima pietra da parte di Cosimo II, agli altri prodigi successivi.

La tavola di San Francesco

(Pescia)

 

La grande tavola lignea, datata 1235, è firmata da Bonaventura Berlinghieri, artista lucchese documentato dal 1228 e appartenente a una famiglia di pittori. Il padre, Berlinghiero, risulta infatti autore di un crocifisso ora nella Pinacoteca di Lucca, e i fratelli, Marco e Barone, erano anche miniatori. La pala d’altare venne eseguita per la chiesa di S. Francesco a Pescia, a solo nove anni dopo la morte del Poverello d’Assisi, ed è per questo una delle testimonianze fondamentali e più antiche dell’aspetto del santo. Ai lati della grande figura centrale, in cui il personaggio veste il saio bruno con cappuccio a punta, mostra le stimmate alle mani ed ai piedi e tiene con la sinistra il libro della “Regola”, sono dipinte sei storiette con gli episodi salienti della sua vita e dei miracoli. Due angeli a mezza figura e dalla spiccata frontalità, di derivazione bizantina, sono collocati ai lati di S. Francesco, a dimostrarne, appunto, la santità. Nonostante la stilizzazione, consueta in opere consimili del primo ‘200, l’immagine solenne del santo conserva, nel gesto della mano aperta verso l’osservatore, come a richiamare l’attenzione, e nello sguardo penetrante vòlto di lato, qualcosa del carattere vivo e appassionato del personaggio. Il pittore accentua l’evidenza di gesti e situazioni psicologiche nelle storiette laterali, dipinte con un felice gusto coloristico da miniatore. Sul fondo oro si alternano il rosso carminio al grigio–azzurro, il bianco all’ocra, all’arancio e al bruno; le figure in primo piano, sinteticamente e vigorosamente delineate dai contorni e dal netto giuoco dei panneggi, agiscono – quasi gesticolando – sullo sfondo di edifici di gusto fiabesco, che bene si adattano a fare da scenario alla “Legenda” francescana.Bonaventura Berlinghieri è soprattutto sensibile al clima incantato del miracolo: e non a caso ai prodigi compiuti dal santo sono riservate cinque delle sei storiette. Fra queste, tutte peraltro contraddistinte da gustosa vivacità narrativa, si distingue la scena della “Liberazione degli ossessi”. S. Francesco, quasi colto d’improvviso mentre sta dinanzi all’altare della chiesa per celebrare la messa, si volge a scacciare, col solo sguardo e col gesto, i diavoli che occupano tre persone, fra cui una povera donna priva di senno, col petto scoperto, guidata da un familiare. Dalla parte opposta un fraticello sta ancora compiendo l’azione di esortare S. Francesco a compiere il miracolo: che già avviene, sulla destra, con l’uscita ripugnante di tre diavoletti neri e puntuti dalla bocca dei disgraziati. Ed è da segnalare come, probabilmente fin dall’antico, il demonio più grosso, quello che fronteggiava il poverello, uscendo dalle fauci spalancate del giovane posseduto, sia stato graffiato via come per una sorta di impossibilità di sopportarne l’orribile vista dinanzi all’ascetica immagine del santo. Una viva testimonianza, anche questa, della mentalità medioevale di cui Bonaventura Berlinghieri appare così acuto illustratore.

Stabilimento il Tettuccio

( Montecatini Terme )

 

Già note per le proprietà curative fin dal ‘300, le Terme di Montecatini sono state fin da allora il nucleo generatore dell’abitato. Fra le numerose sorgenti, la più nota era quella denominata “Tettuccio” (così chiamata per la tettoia che anticamente ne ricopriva la cisterna), fin dal 1513. Ma una vera e propria valorizzazione in grande stile fu voluta dal Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, che fece effettuare opere idrauliche e di canalizzazione, nel quadro di risanamento di tutta la Valdinievole, paludosa e malsana. In breve volgere di tempo sorsero i tre fabbricati del “Bagno Regio” (iniziato nel 1773), delle “Terme Leopoldine” (1775) e del rinnovato “Tettuccio” (1779), mentre sorgeva anche la città, lungo un grande

viale carrozzabile (che poi si intitolerà a Giuseppe Verdi) che collegava la “Regia rotabile Lucchese” col “Tettuccio”, secondo il progetto dell’architetto granducale Niccolò Gasparo Paletti. Ceduta nel 1784 da Pietro Leopoldo ai Monaci Cassinesi di Badia, successivamente l’amministrazione delle Terme passo ai privati. Un nuovo impulso fu dato da Pietro Baragiola, che nel 1900 costituì la Società Anonima Nuove Terme, acquistando terreni e sorgenti private, fino a che, nel 1911, la Società delle Terme e quella delle Nuove Terme furono unificate. Era il periodo d’oro delle cure termali, era il tempo della “Belle Epoque” e una raffinata clientela internazionale portava aria d’Europa a Montecatini. L’attuale aspetto dello

Stabilimento “Tettuccio”, costruito dal 1779 al 1781 dall’ingegnere Niccolò Gasparo Paletti, si deve alla ristrutturazione, compiuta fra il 1925 e il 1928 circa, su progetto dell’architetto Ugo Giovannozzi. La decorazione interna si deve a vari artisti: Basilio Cascella, Maria Biseo, Corrado Vigni, Galileo Chini ed Ezio Giovannozzi. Negli ampi spazi aperti, nel giro dei colonnati, nelle vasche e nelle fontane circondate dal verde del parco ben tenuto, nelle sale di scrittura e del “Cafè” si respira un’aria struggente di primo Novecento. Nel porticato dove si attingono i vari tipi di acque per la cura idroponica, sorridono ancora le immagini floreali che ripropongono il mito di una fiorente bellezza unita alla salute. Ad uno dei maggiori architetti italiani, Paolo Portoghesi, è stato affidato il progetto del nuovo padiglione coperto. Inaugurato il 10 giugno 1989, si offre agli ospiti come spazio estremamente suggestivo per il riuscito accostamento, di sapore inedito, fra elementi rigorosamente geometrici (il gioco “optical” del pavimento bianco e grigio, tavolini e sedie stile “Novecento”) e forme artificiosamente naturali, come i pilastri–tronchi in legno dalle morbide curve neo–gotiche sorreggenti il lucernario: con risultato finale vagamente espressionista e come perso fra calcolati equilibri e sogno fantastico.